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Educare a una coscienza generativa

Giovani e computer

La riflessione sull’intelligenza artificiale (AI) si alimenta in modo costante abbracciando qualunque ambito dell’esistente. Dai processi organizzativi e di lavoro a quelli educativi e formativi, dalle ricadute geopolitiche alla produzione di idee, fino alla dimensione etica e spirituale, l’AI rappresenta ormai una delle cornici interpretative della contemporaneità. Questo contributo non vuole entrare nel merito delle sue molteplici e macro-implicazioni, ma proverà ad offrire una chiave di lettura speculativa (ed educativa) limitata all’AI generativa, ossia quella basata su algoritmi (come ChatGPT) che possono essere utilizzati per creare nuovi contenuti. La scelta di questo perimetro di analisi è motivata dall’allargamento esponenziale dei meccanismi di produzione determinato dalla cultura digitale. Si fa rifermento ai cosiddetti “user generated content”, ossia a tutti quei video, testi, immagini, audio, creati e condivisi dagli utenti su social media, instant messanger, blog, wiki. Ogni azione produttiva, poiché basata su scelte libere e intenzionali, presuppone, inoltre, un’assunzione di responsabilità, che non è sempre consapevole ed è spesso data per scontata. Educare, dunque, a una coscienza generativa diventa una delle sfide che il dibattito sull’AI deve e dovrà fronteggiare.

Corso e ricorso storico

Parlare di intelligenza artificiale non è una novità. Potremmo definire il dibattito sviluppato intorno ad essa un “corso e ricorso storico” che contraddistingue i macro-riti di passaggio culturale, una sorta di ri-ontologizzazione dell’esistente orientata dalle percezioni dei nuovi scenari. Questa premessa rischia – forse – di deprezzare concettualmente un apparato intellettuale (e pratico) legittimo, figlio della cultura digitale, ma non solo. L’intelligenza artificiale risente, infatti, di un secolo di narrazioni “spinte” sull’antico processo (umano) di antropomorfizzazione delle nature e delle culture che vede le realtà materiali liberate dalla loro oggettualità passiva, per riposizionarsi in soggetti dotati di vita, sensibilità e intelligenza. Questo è avvenuto soprattutto con gli artefatti tecnologici, “attori” protagonisti di letteratura e cinema. Il Frankenstein di Mary Shelley (1818), i racconti di fantascienza di primo Novecento di Isaac Asimov, la sterminata filmografia distopica del secolo scorso, dimostrano quanto la relazione con le macchine non sia circoscritta al mero atteggiamento pragmatico-strumentale (il dispositivo mi serve, è funzionale a qualcosa), ma intercetti una prospettiva espressivo-affettiva (il dispositivo è un amico, incarna attributi umani). Del resto, l’individuo sociale, tende da sempre a proiettare nell’alter, nel diverso, porzioni e sembianze del sé. Questa inclinazione, oltre che negli oggetti, è visibile nel rapporto con il mondo animale. Non è un caso che la storia dell’animazione per bambini, abbia sovente come interpreti cani, gatti o altre bestie umanizzate. Lo stesso vale per le religioni, sia quelle politeiste (si pensi alla idealtipizzazione umana che la mitologia ha fatto degli dei greci), che quelle monoteiste come il cristianesimo (nel libro della Genesi, il male trascendente si personifica nel serpente che diviene interlocutore di Eva convincendola a mangiare il frutto proibito).

Foto di Solen Feyissa su Unsplash

La domesticazione dell’AI

Il tentativo plurisecolare di dare un senso al mondo che riguarda anche l’intelligenza artificiale, oggi non è più limitato al mainstream artistico e mediatico secondo una logica top-down, ma è entrato prepotentemente (e orizzontalmente) nel dibattito pubblico perché abbraccia potenzialmente tutta l’umanità. È successo grazie all’esplosione – nel 2022 – del fenomeno “ChatGPT”, l’algoritmo sviluppato da OpenAI per generare testi in modo automatico. L’AI generativa, nonostante una iniziale difficoltà di utilizzo, sta assumendo sempre più i tratti di una tecnologia domestica, prêt-à-porter, fruibile, portabile e indossabile da chiunque. E, in molti casi, gratuita. Si moltiplicano software, tools, applicazioni usabili e intuitive per comporre scritti, immagini, traduzioni, calcoli. Conseguenza principale è l’imponente circuito formativo e pubblicistico che, negli ultimi mesi, ha eretto l’intelligenza artificiale generativa ad una delle sfumature da approfondire, indicandola, di fatto, come la porta più facile da aprire per capire ed adoperare l’AI. Se da un lato, la massimizzazione della riflessione favorisce una ricezione immediata ed un’ampia accoglienza del tema, dall’altro rischia di destabilizzare l’uomo (e la donna) comune innestando reazioni sbilanciate più sulla paura, sull’indignazione che sull’autentica e serena comprensione. Ancora, nonostante sempre più specialisti (o pseudotali) dibattono e spiegano l’AI generativa, allo stesso tempo ci si potrebbe esporre ad un uso dell’intelligenza artificiale guidato dal senso comune, ovvero mediante spiegazioni e intendimenti delle cose per come appaiono. L’AI generativa, in quanto risultante di progettualità umana, è evidentemente oggetto potenziale di pratiche di “common sense”, ma può anche posizionarsi come un patrimonio creativo, impostato sulla competenza e orientato da principi etici. In questa dualità, l’ago della bilancia è rappresentato dall’educazione.

Foto di Maxim Tolchinskiy su Unsplash

Educare l’intelligenza artificiale

Secondo alcune ricerche entro il 2025, il 10% di tutti i dati sarà il risultato di creazioni di AI generativa. Ciò dimostra come l’intelligenza artificiale riguarda potenzialmente ciascun individuo sociale. Si pensi, ad esempio, a uno studente che scrive una ricerca con un software di “generative AI”. Potrà delegare totalmente questo esercizio all’algoritmo, oppure considerarlo un valore integrativo del suo impegno intellettuale. Come è evidente, i rischi associati all’intelligenza artificiale generativa altro non sono che estensioni di minacce già esistenti e conosciute, come la violazione della privacy, il diritto d’autore, le fake news. Sembra riecheggiare la condanna verso le piattaforme di social media a lungo (e ancora oggi) accusate di originare contenuti dannosi. Anche il contrastare tutto questo rimanda al caleidoscopio di soluzioni già teorizzate ed adottate per i prodotti legati ai social media. Ad esempio, quando i modelli di intelligenza artificiale generativa producono risultati insensati ed errati resta sugli utenti umani l’onere di verificare l’accuratezza e la pertinenza contestuale di tali risultati prima di utilizzarli.

Per questo, opportunità e rischi dell’intelligenza artificiale generativa, sebbene complessi, restano sotto il nostro controllo. Attenzionare i produttori istituzionali di intelligenza artificiale richiamandoli a un approccio eticamente responsabile, è certamente un’operazione doverosa soprattutto in termini di regolamentazione. Ma i limiti – si sa – sono fatti per essere superati, soprattutto in una società ad alta complessità, dove tempi e spazi sono destrutturati, e nella quale la velocità è la dimensione socio-culturale predominante. Non ci resta, pertanto, che passare da una logica educativa che trascenda lo sforzo apprezzabile di educare all’intelligenza artificiale (e ai suoi strumenti), per passare ad una idea tanto paradossale quanto concreta: occorre educare l’intelligenza artificiale, perché l’ AI siamo noi. Significa, cioè, condurci ad una graduale presa di coscienza delle nostre qualità “superiori”, adottando costumi esistenziali virtuosi come l’originalità, il rispetto della verità e l’intelligenza della saggezza. Essere intelligenza artificiale (ed educarsi ad esserlo) significa, infine, comprendere che essa rappresenta – nella sua declinazione generativa – la proiezione del dono di sé per gli altri, della propria e altrui libertà e della comprensione profonda delle cose attraverso la loro generazione e condivisione.

Immagine: Foto di Desola Lanre-Ologun su Unsplash

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