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Le applicazioni di IA fra applausi e spaesamento. Una politica di [dis]informazione e [in]competenza

computer, macchina da scrivere

Per parlare di intelligenza artificiale [IA da qui in avanti] non si può non scomodare il tema più ampio della innovazione tecnologica. Per far questo occorre parlare di modernità. Tecnologia e modernità hanno suscitato sentimenti di entusiasmo e di paura allo stesso tempo. E questo ben lo si sa. La sola riflessione sulla modernità, a partire dal pensiero di Walter Benjamin e di Charles Baudelaire, apre dibattiti che, seppure sia passato ben più di un secolo dalle loro riflessioni, sono di una attualità straordinaria.

Spaesamento, paura, entusiasmo sono i sentimenti che hanno pervaso le vite delle persone che hanno abitato i primi anni del novecento, periodo delle più grandi scoperte tecnologiche, se escludiamo i caratteri mobili prima e il www dopo. Pur considerandoci postmoderni quei sentimenti sono ben presenti ancora nelle nostre vite di contemporanei.

Veniamo agli albori della intelligenza artificiale. Siamo negli anni 40 del novecento e Alan Turing lavora alla macchina Enigma. Poca cosa rispetto alla potenza dell’IA di oggi ma grande cosa se si pensa al momento storico a quegli studi di avanguardia che hanno indicato la via delle più innovative applicazioni di oggi.

Ho avuto la fortuna, negli anni ’80, di studiare l’IA all’interno delle ricerche su innovazione, tecnologica e società. È passato del tempo ma oggi, come allora, almeno sotto l’aspetto della riflessione sociologica, la questione di fondo è rimasta. Sono rimaste la paura per il nuovo non ben conosciuto, la preoccupazione per la perdita di controllo del sistema ma anche della nostra vita mentre l’entusiasmo dei primi studi e applicazioni è sceso, ha perso posizione. Almeno così mi pare.

John McCarthy, Marvin Minsky, John Searle e altri sono stati i primi a definire l’intelligenza artificiale nel 1956. Una macchina che fa cose che, se fossero fatte dagli uomini sarebbero intelligenti, allora quella macchina è intelligente. Oggi ci sono una gran quantità di oggetti e di app che svolgono attività che vengono considerate intelligenti. E soprattutto vi possiamo accedere e le possiamo utilizzare. Sono alla portata di tanti, in potenza i tutti. Pensiamo a Internet per le cose (IoT): sono oggetti intelligenti, perché fanno cose che potremmo benissimo, ma anche malissimo, fare noi. Così come le app intelligenti, una per tutte ChatGPT che risponde ai quesiti e ci racconta storia e storie in diversi campi delle scienze. Attività che se fosse svolta da persone risulterebbe intelligente e perfino creativa.

Sia IoT che le App cui ho fatto riferimento sono applicazioni di IA ormai molto avanzate. Dalle prime attuazioni tutto si è ampiamente perfezionato e diventato più potente ed è entrato sempre più massicciamente nelle nostre vite.

Foto di Bence Boros su Unsplash

Ho fatto riferimento a queste applicazioni perché in fondo sono quelle che maggiormente impattano con il nostro quotidiano modificando il nostro mondo di relazione. Sono oggetti e applicazioni che parlano con altre applicazioni, che parlano con persone; che fanno parlare persone tra loro, in vicinanza e a distanza, soprattutto hanno un ruolo attivo, partecipativo in tanti settori della nostra vita.

Faccio qualche esempio. Si pensi alla sanità. Indubbiamente è un tema importante. E oggi più che mai la tecnologia intelligente ci aiuta ad avere una migliore qualità di salute. Abbiamo la possibilità di essere attivi, controllare e gestire alcune alterazioni del nostro corpo. Parlo di sistemi intelligenti di monitoraggio della salute. Dai misuratori di insulina che trasmettono direttamente a un centro cure i dati del paziente, a sistemi intelligenti per il supporto di alcune patologie o disabilità, ma anche alla cartella clinica intelligente che contiene i nostri dati e che ci permette di avere sempre sotto controllo la situazione, compresa la possibilità di interagire con medici di famiglia e/o specialisti che possono così comunicare fra loro.

Altre applicazioni interessanti sono relative alle smart city, sistemi intelligenti di monitoraggio del trasporto e di guida intelligente. 

Oppure la casa intelligente dotata di sistemi di sicurezza facilmente gestibili.

Ancora applicazioni che mettono insieme arte e disabilità come viene fatto al Museo Omero in Ancona che è in grado di permettere ai non vedenti o ipovedenti di “vedere” opere d’arte, godere di bellezze che senza quegli applicativi non sarebbero loro accessibili.

Come si vede da questi comuni utilizzi di IA e App molte sono le opportunità offerte. Indubbio che questi sistemi intelligenti possono rendere la nostra vita di maggiore qualità, permettendo ad alcuni di noi, che non potrebbero farlo autonomamente, di mettersi in connessione e in relazione e ottenere vantaggi: maggiore relazione, partecipazione e ruolo attivo. Un’apertura del sistema verso il mondo, verso l’ambiente.

Una chiosa. La relazione sistema-ambiente è centrale anche per questi studi. La sociologia da sempre se ne è occupata. Una centralità che ci rimanda agli studi di uno dei più grandi sociologi del ‘900, Talcott Parsons. È fuor di dubbio che le società (come tutti i sistemi) vogliano conservarsi e fare uso, come indicato da Parsons, di meccanismi di feedback per la conservazione dello status quo, è anche per questo che forse i sistemi sociali e le persone che ne fanno parte hanno paura delle applicazioni di IA, per le loro capacità di comunicare e di connettersi con l’ambiente e mettere così in crisi la conservazione del sistema. Temono il rischio che i sistemi di IA prendano il sopravvento e attivino una apertura operazionale che riduce le capacità della società di conservarsi o evolversi in modo autonomo.

          Come fanno questi strumenti a mettersi in connessione con l’ambiente? Lo fanno attraverso sensori e attuatori.

          Mi spiego: i sensori ricevono informazioni che vengono restituite all’ambiente, producendo connessioni e interazioni. Questa connessione, questa apertura può avvenire a distanza con tecnologie intelligenti leggere anche in assenza di umani.

Foto di Luke Chesser su Unsplash

Negli anni ’90, quando si parlava ad esempio di realtà virtuale e/o intelligente si usavano caschi enormi e si faceva anche fatica a muoversi. Questo non era naturale, la tecnologia era una barriera forte. La tecnologia si è alleggerita. Le app sono senza barriere fisiche, sono invisibili, liquide. Se un casco, un occhiale con capacità intelligenti li vedi, le loro capacità intelligenti sono mediate dall’oggetto stesso (dalla ferramenta), le app intelligenti non hanno barriera fisica, definiscono interazioni particolarmente facili, percepite come naturali, per capirci. Gli antropologi non utilizzerebbero mai il termine naturale, giustamente, qui lo uso per intendere qualcosa che fa parte del nostro modo comune di fare le cose. Le applicazioni intelligenti possono creare più smarrimento e perciò più paura, più preoccupazione. Sul piano della relazione è fuor di dubbio che, quando non ci sono presenze fisiche che si frappongono, la relazione, la connessione appare più immediata. Non ci sono filtri visibili e questo induce le persone a delegare alla tecnologia, anche inconsapevolmente, – nel convincimento di esserne gli autori -, le proprie scelte e decisioni.

          Questo porta a riflettere. La liquidità di queste applicazioni possono creare  problemi che, controlli e monitoraggi non sono sempre capaci di risolvere, non sempre operano a favore degli utenti, anzi! Tanto si nasconde dietro a cookies e regole di protezione della privacy; spesso sono modalità di facciata più che di vero supporto per mettere al centro la persona.

          Questa pericolosità non viene affrontata correttamente. C’è da parte dei cittadini un approccio superficiale; non abbiamo cultura nell’uso delle tecnologie, accettiamo qualunque cosa senza competenza. Abbiamo la presunzione di saper utilizzare questi oggetti e app, interpretiamo con le poche conoscenze che abbiamo, deleghiamo. Una carenza dovuta all’asimmetria informativa, figlia di una scarsa cultura e conoscenza digitale. Così pensiamo di essere medici, esperti di guida, di protezione delle nostre case e delle nostre vite. E quando le cose ci sfuggono di mano si sviluppano sentimenti di paura e preoccupazione. È fuor di dubbio che di fronte al potere della macchina, se non abbiamo competenza e l’umiltà di affidarci all’esperto umano come dovrebbe accadere per esempio nella gestione della salute, la tecnologia prende il sopravvento e andiamo incontro a rischi molto elevati. Non si possono accantonare e liquidare con superficialità questi rischi. Persino i  tecnoentusiasti sottolineano alcune pericolosità. Due fra i più importanti studiosi di IA e delle sue applicazioni, John Searle e David Weinberger, che hanno, per molto tempo, sottolineato la forza di Internet per la connessione aperta, per la connessione decentrata, per la connessione distribuita, oggi questi stessi studiosi definiscono predoni coloro che approfittano, grazie a  app e sistemi intelligenti e algoritmi, dei nostri dati evidenziando che di contro dovrebbero essere sistemi e applicazioni per prendersi cura di noi stessi, per attivare relazioni, conoscenze e condivisione. Non basta gridare al lupo, allontanare da noi la tecnologia che, come ho detto all’inizio, è straordinariamente utile, occorre fare formazione, creare competenze per far sì che si possa essere protagonisti e non comparse passive. La mancanza di consapevolezza all’uso è il vero guaio non lo è la tecnologia intelligente o social. Lo è l’uso politico, economico, sociale ed etico che quando non educa ma spinge a una delega senza filtri vuol dire che non sta dalla nostra parte.

Immagine: Foto di Glenn Carstens-Peters su Unsplash

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