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Guerre di Rete | Pensavo fosse un’AGI e invece era un’API

Guerre di Rete – una newsletter di notizie cyber
a cura di Carola Frediani
N.153 – 5 marzo 2023

OpenAI – l’organizzazione dietro al chatbot di AI generativa ChatGPT – dopo il lancio a febbraio di un servizio premium, ChatGPT Plus, ora ha introdotto un’API (un’interfaccia che permette a dei servizi di comunicare con altri) che consentirà a qualsiasi azienda di integrare la tecnologia ChatGPT nelle proprie applicazioni, siti web, prodotti e servizi.
Al prezzo di 0,002 dollari per 1.000 token (pari a circa 750 parole), l’API si propone di dare vita a una serie di nuove esperienze d’uso, anche in applicazioni non di chat. Snap, Quizlet, Instacart e Shopify sono tra i primi utilizzatori, riferisce TechCrunch. Ad esempio, Shopify starebbe utilizzando l’API di ChatGPT per creare un assistente personalizzato per i consigli sugli acquisti, e Instacart per creare Ask Instacart, un servizio che consentirà ai clienti di chiedere informazioni sul cibo e di ottenere risposte “acquistabili” basate sui dati dei prodotti dei partner commerciali dell’azienda.

Questo sul piano del business. Siccome però restare su questo piano rischia a lungo andare di essere deludente rispetto alle enormi aspettative create attorno alla corsa all’intelligenza artificiale, ci ha pensato Sam Altman, il Ceo di OpenAI, a rilanciare sul piano ideale con un post modestamente e pacatamente intitolato “Pianificare per l’Intelligenza Artificiale Generale (AGI) e oltre”. Ricordo che con AGI ci si riferisce a un concetto piuttosto controverso e fumoso, ovvero un’intelligenza artificiale “generale” o “forte”, che possa “emulare l’intelligenza umana” o “raggiungere appieno le capacità cognitive umane” (da definizioni di vari studi), o magari anche superarle.
“La nostra missione è garantire che l’intelligenza artificiale generale – sistemi di intelligenza artificiale che sono generalmente più intelligenti degli esseri umani – sia di beneficio per tutta l’umanità”, esordisce Altman. In effetti questa era la missione iniziale di OpenAI, cofondata da Altman, Musk, Peter Thiel e altri nel 2015. Ma, come nota un pungente articolo di Vice, “ora, otto anni dopo, ci troviamo di fronte a un’azienda che non è trasparente né guidata da un impatto umano positivo, ma che invece, come hanno sostenuto molti critici tra cui il co-fondatore Musk [poi allontanatosi, ndr], è alimentata dalla velocità e dal profitto. E questa azienda sta dando vita a una tecnologia che, per quanto imperfetta, è comunque destinata ad aumentare alcuni elementi dell’automazione del posto di lavoro a spese dei dipendenti umani”.

Musk vuole di nuovo scendere in campo sul’AI?
Intanto, nelle ultime settimane Elon Musk si è rivolto a ricercatori di intelligenza artificiale per formare un nuovo laboratorio di ricerca per sviluppare un’alternativa a ChatGPT. Negli ultimi mesi Musk ha ripetutamente criticato OpenAI per aver inserito delle protezioni che impediscono allo strumento di generare testi offensivi. L’anno scorso aveva suggerito che la tecnologia di OpenAI fosse un esempio di “addestramento dell’intelligenza artificiale per essere woke”(intraducibile termine usato dalla destra americana in modo dispregiativo per indicare degli intolleranti e moralisti attivisti progressisti, ndr). I suoi commenti implicano che un chatbot rivale avrebbe meno restrizioni su argomenti divisivi rispetto a ChatGPT, riferisce The Information.
Musk ha co-fondato OpenAI nel 2015 ma da allora ha tagliato i ponti con la startup, allontanandosi nel 2018 per divergenze e per concentrarsi sulle sue altre attività, almeno a suo dire. 

Nel mentre Mark Zuckerberg ha dichiarato che Meta sta costruendo degli strumenti basati sull’intelligenza artificiale per WhatsApp, Messenger e Instagram (Verge)


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La carica delle startup di AI generativa
Insomma, non passa un giorno che non ci sia un annuncio di qualche tipo da parte delle grandi aziende tech che si stanno contendendo la scena dell’AI generativa nella corsa all’oro di cui scrivevo qualche tempo fa; o che non ci sia qualche startup che raccolga finanziamenti, lanci o rilanci un prodotto. 

Ora l’Economist parla di “esplosione del Cambriano” (o il Bing Bang biologico, ovvero il periodo in cui la Terra passò in breve “dall’essere popolata da organismi semplici e unicellulari a ospitare una multiforme varietà di forme di vita”): “Pete Flint di NFX, un’altra società di venture capital, conta oggi più di 500 startup di AI generativa. Finora hanno raccolto collettivamente più di 11 miliardi di dollari, escludendo OpenAI”, scrive, ricordando però anche quello che raccontavo qua: che pendono ancora molte incognite, anche legali, su questi servizi, tra questioni di copyright e rischi per la sicurezza.“Per gli investitori più avversi al rischio – conclude l’Economist –  la scommessa più sicura al momento è quella sui fornitori dell’ampia potenza di calcolo necessaria per addestrare ed eseguire i modelli di fondazione. Il prezzo delle azioni di Nvidia, che progetta chip utili per le applicazioni AI, è salito del 60% quest’anno. Anche i servizi di cloud computing e i proprietari di data center si stanno sfregando le mani”.

Contro l’ottimizzazione predittiva
In questa esplosione cambriana, governi, banche e datori di lavoro utilizzano strumenti di AI per prendere decisioni su individui in base a delle previsioni sul loro comportamento futuro. La chiamano ottimizzazione predittiva e la usano per decidere chi “indagare per maltrattamento di minori, chi approvare per un prestito e chi assumere. Le aziende vendono l’ottimizzazione predittiva con la promessa di decisioni più accurate, eque ed efficienti. Sostengono che elimini completamente la discrezionalità umana. E poiché l’ottimizzazione predittiva si basa interamente sui dati esistenti, è economica: non sono necessari dati aggiuntivi”, scrivono dei ricercatori di Princeton, fra cui Arvind Narayanan. Ma, ed è un grande pesante ma, “queste applicazioni nella stragrande maggioranza dei casi non funzionano come promesso”.

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