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Perché l’intelligenza umana sia migliore di quella artificiale

Vito Mancuso nell’articolo L’Homo è più o meno Sapiens? Intelligenza artificiale al bivio, pubblicato su “La Stampa” del 15 dicembre, evidenzia l’effetto “seduttivo” dell’Intelligenza Artificiale (IA), che sta rivoluzionando sia il mondo esterno che quello interno dell’uomo.

L’autore sottolinea la differenza tra l’intelligenza umana e l’IA, menzionando la “libertà di pensiero critico, creativo e responsabile” come caratteristica peculiare dell’uomo.

Presenta l’approccio delProblem Solution”, tipico dell’intelligenza artificiale, che si focalizza sulla risoluzione di problemi attraverso l’applicazione di algoritmi predefiniti, contrapponendolo all’approccio del “Problem Posing”,  tipico dell’intelligenza umana. Il pensiero umano è in grado di esplorare la complessità dei problemi, di porre domande nuove, di esaminare le prospettive sotto nuove angolazioni e di affrontare questioni non ancora definite o comprese.

L’evoluzione tecnologica sta rendendo gli esseri umani sempre più dipendenti dalle macchine, fa l’esempio dell’interazione genitori-figli, dove sottolinea che il cellulare sembra essere più efficace nel comunicare  rispetto all’interazione faccia a faccia.

Mancuso richiama il concetto kantiano di autonomia e prospetta un bivio sull’uso dell’IA: se gestita in modo responsabile, potrebbe potenziare la libertà e le capacità umane; tuttavia, se non utilizzata con prudenza, potrebbe ridurre la libertà umana e approfondire la dipendenza dalle macchine, compromettendo così la profondità del pensiero umano.

Per Mancuso, l’intelligenza è strettamente associata alla saggezza, alla giustizia e alla bontà. È un tipo di intelligenza che va al di là delle capacità cognitive per abbracciare un approccio globale e armonico alla vita, integrando la conoscenza con la compassione, perché la comprensione profonda della vita implica un coinvolgimento compassionevole verso gli altri.

Quindi, parafrasando Mancuso, potremmo dire che l’uomo smette di essere “macchinista” e “si macchinizza” non tanto quando smette di ricordarsi a memoria i numeri telefonici e ha bisogno dell’agenda elettronica, ma quando smette di voler telefonare per essere vicino a qualcuno.

L’autore pone Il bivio tra l’intelligenza “naturale” e l’intelligenza “artificiale”, tra il porsi problemi di senso e eseguire meccanicamente. Va notato però l’uomo non è sempre all’altezza di quella che Mancuso definisce intelligenza “naturale”, infatti, per riprendere l’esempio della sanità da lui utilizzato, ci sono operatori sanitari non più “umani” dei chatbot che spesso dobbiamo utilizzare per le pratiche burocratiche.

Mancuso mette in luce che dobbiamo smettere di guardare all’intelligenza artificiale come se fosse l’Oracolo di Delphi, che ci dà risposte e soluzioni, invita a guardare all’intelligenza artificiale non come un sostituto completo o una soluzione definitiva per i problemi umani, ma piuttosto come uno strumento.

Secondo Mancuso, l’IA dovrebbe essere vista come uno strumento che può arricchire l’intelligenza umana, aiutando a prendere decisioni più informate, risolvere problemi complessi e migliorare la nostra comprensione del mondo. Pone  l’accento sull’importanza di gestire questa tecnologia in modo tale da preservare la libertà, la creatività e l’umanità stessa, evitando la dipendenza eccessiva o l’asservimento passivo all’IA. Dovremmo fare attenzione affinché non diventi una forza che limita la nostra autonomia o riduce la nostra complessità come esseri umani.

Potremmo aggiungere alle profonde riflessioni di Mancuso che ormai l’IA sembra essere più di una macchina che si possa spegnere o da cui si possa scendere, è diventato il nostro ambiente insieme alla terra, all’acqua, al fuoco e all’aria, che condividiamo con gli altri viventi, ma siamo noi viventi umani ad esserne responsabili e sta a noi scegliere di essere saggi, solidali e buoni. Sta a noi dimostrare che siamo più dei chatbot.

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