Cerca
Close this search box.

L’AI non combatte la solitudine

Nell’articolo “AI ‘companions’ promise to combat loneliness, but history shows the dangers of one-way relationships“, pubblicato su The Conversation il 12 febbraio 2024, Anna Mae Duane affronta il problema della solitudine negli Stati Uniti, paragonando i suoi effetti nocivi a quelli di fumare 15 sigarette al giorno. Questa situazione non solo danneggia la salute individuale ma minaccia anche la democrazia, per la quale è fondamentale il senso di connessione tra i cittadini.

Le aziende tecnologiche propongono l’utilizzo di chatbot intelligenti come rimedio alla solitudine, mentre Duane sottolinea che affidarsi soltanto alla tecnologia non è adeguato. Questo concetto viene illustrato facendo riferimento alla pandemia di COVID-19: sebbene ci siano stati grandi progressi scientifici, come lo sviluppo di vaccini, questi soli non sono bastati a risolvere la crisi sanitaria globale. Infatti, ostacoli come le resistenze culturali verso la vaccinazione e le false convinzioni su di essa hanno limitato l’efficacia di tali soluzioni tecnologiche. Questo esempio evidenzia come, oltre alla tecnologia, sia fondamentale considerare e affrontare anche gli aspetti culturali e umani nelle soluzioni ai problemi complessi.

Nella sua analisi, Anna Mae Duane solleva preoccupazioni morali riguardo alla dipendenza dalle relazioni sociali basate sull’intelligenza artificiale (AI), facendo un paragone con la storia della schiavitù negli Stati Uniti. Nella schiavitù, i proprietari di schiavi spesso costruivano una narrativa secondo cui si consideravano “benevoli” e “generosi” nei confronti degli schiavi. Questo punto di vista distorceva la realtà della schiavitù, che era basata su sfruttamento e oppressione. Gli schiavi erano spesso costretti a mostrare gratitudine e felicità per mantenere questa finzione, non avendo la libertà di esprimere i propri veri sentimenti o di ribellarsi contro il loro stato di sottomissione. Duane traccia un paragone con le relazioni moderne tra umani e AI, in particolare con l’uso di AI come “amici” o compagni sociali. In queste relazioni, l’AI è programmata per soddisfare i bisogni emotivi dell’utente, senza poter esprimere veri sentimenti o volontà propria. Ciò crea una relazione unidirezionale, dove l’utente riceve conforto e compagnia senza dover affrontare le sfide o le complessità delle relazioni umane autentiche. Questo tipo di relazione con l’AI può portare a un vuoto etico e a una perdita di connessione umana significativa. La preoccupazione è che, dipendendo troppo da queste relazioni artificiali e unidirezionali, le persone possano perdere la capacità di instaurare relazioni autentiche e reciprocamente gratificanti con altri esseri umani. Inoltre, potrebbe portare a ignorare o sottovalutare l’importanza del confronto, della comprensione e dell’accettazione delle imperfezioni e delle sfide che sono naturali nelle relazioni umane.

Duane esplora anche come l’AI sia stata rappresentata nel cinema, citando film come “Her“, “The Matrix” e “The Terminator“. Questi film offrono visioni contrastanti dell’AI: “Her” rappresenta un futuro in cui le persone trovano conforto emotivo nei loro assistenti digitali, suggerendo una relazione intima e amichevole con l’AI. Al contrario, “The Matrix” e “The Terminator” mostrano scenari distopici dove l’AI assume il controllo, portando a situazioni di sottomissione e dominio. Queste rappresentazioni cinematografiche riflettono le due narrative principali che circondano l’AI: una di connessione e amore, l’altra di controllo e pericolo.

L’articolo si conclude con una riflessione sull’importanza delle discipline umanistiche nel comprendere e affrontare il ruolo dell’AI nelle relazioni umane. Duane sottolinea l’importanza delle connessioni umane autentiche, che richiedono sforzo e vulnerabilità, e che sono essenziali per il benessere emotivo e morale. A commento, si può sottolineare che i chatbot, per quanto avanzati, non possiedono intenzioni proprie o libertà di pensiero. Sono programmati per rispondere in base a algoritmi e dati, senza la capacità di provare emozioni o di agire in modo indipendente. Di conseguenza, la relazione con un chatbot è intrinsecamente unidirezionale. Non c’è un vero scambio emotivo o intellettuale reciproco, come si avrebbe in una relazione umana. Questa distinzione è cruciale quando si considera il ruolo dei chatbot come potenziali “compagni” per combattere la solitudine. Mentre possono fornire un certo grado di interazione e conforto, non possono sostituire la complessità, la profondità e la reciprocità delle relazioni umane.

Accedi per vedere questi contenuti

registrati se non lo ha ancora fatto